
Oggi, vorrei partire un po' dall'inizio. Perchè sì, parlare di leadership tossiche, di manager distruttivi, di mobbing e di burnout, con sintomi annessi e connessi, va bene.
Ma ci siamo mai chiesti: da dove parte tutto ciò? Siamo forse nati con scritto nel nostro DNA come svolgere un lavoro in un'azienda, rispondere a gerarchie, strutture, in contesti ottimizzati su regole, norme, diritti, doveri, strategie, dove bisogna raggiungere obiettivi, e il lavoro è diviso in compiti, mansioni, responsabilità, dove convivono capi, colleghi, collaboratori. Persone che non si scelgono reciprocamente.
Persone con le quali è necessario vivere e convivere nel modo meno distruttivo possibile, auspicabilmente in un clima sereno, creativo, collaborativo.
Nessuno, insomma, nasce per fare il lavoratore dipendente.
Qual è il suo opposto? E' la natura umana, ciò che viene spontaneo alla persona: costruirsi una dimensione lavorativa autonoma, legata a interessi e motivazioni personali, scegliendo le persone che vogliono intorno a sè e con le quali condividere spazi, idee, opinioni. Quel sentire di avere padronanza sulla propria vita e su ciò che si fa, è questo che ci permette di vivere il lavoro come un complemento accessorio della nostra vita e non confuso nell'essenza stessa della vita. Vale a dire il contrario di ciò che accade nel contesto del lavoro dipendente, regolato da contratti, gerarchie, con una vicinanza sociale imposta, casuale, quasi mai frutto di scelta consapevole e personale.
La letteratura ne parla: si riferisce esplicitamente a promiscuità nei luoghi di lavoro per indicare quella forma di disagio che si può sperimentare a seguito della costrizione a condividere spazi, tempi e attività con delle persone che non avremmo mai scelto liberamente.
Lavorare in azienda impone dunque uno sforzo innaturale alla persona, un percorso di progressivo adattamento.
E qui entrano in gioco moltissime variabili soggettive: il percorso di adattamento non viene affrontato da tutti in modo ottimale, alcuni rimangono arenati in una posizione di lontananza e distacco dall'organizzazione, altri invece entrano con facilità nella rete di relazioni professionali e dei diritti/doveri.
Nella relazione individuo/organizzazione, ci sono lavoratori e lavoratrici che paradossalmente rimangono all'interno dell'organizzazione ma la combattono ogni giorno. Qui entrano gioco le dinamiche della dipendenza, interdipendenza e controdipendenza organizzative, come si pone l'individuo nei confronti dell'organizzazione e la difficile ricerca della distanza ottimale fra individuo, gruppi e organizzazione.
Ogni lavoro è divenuto un lavoro mentale, siamo passati dalla manodopera alla "mentedopera" che deve sapersi muovere, orientare e districare con astuzia e una vera e propria strategia di riadattamento continuo all'interno del mondo del lavoro per non correre il rischio di restare impigliato nelle sue ragnatele.
Come sappiamo, la scuola prepara a tutto meno che a queste dinamiche, fino alla totale o quasi totale assenza di un orientamento professionale serio e programmato, lasciato a qualche incontro con professionisti o aziende o visite a eventi generalisti organizzati da università o altri enti. In questo scenario, men che meno i giovani vengono preparati a ciò che li attenderà una volta valicate le soglie del mondo del lavoro.
E non lo fanno neppure le aziende, focalizzandosi sulle capacità professionali, disbrigo di pratiche amministrative e processi di onboarding privi di contenuto inerente le soft skills.
Le persone devono trovare la loro strada da sè, per prove ed errori o vedendo le esperienze dei colleghi, in un contesto che a volte neppure si scelgono, ma gli capita a sorte. Colleghi annessi.
Qualche fortunato, rarissimi casi, potrà avere il privilegio di usufruire di un percorso di coaching specifico o qualche altro al massimo potrà ambire a un corso sullo sviluppo delle soft skills. In realtà, la maggior parte delle persone continuerà a districarsi nel mondo del lavoro senza supporti formativi (a meno che non abbia le risorse per cercarseli da sè).
Appartenere a un'istituzione non è per nessuno un percorso semplice e lineare: ognuno si posiziona nei confronti del lavoro come può: con le risorse che ha, con i modelli che si porta dentro, i consigli che riceve, sulla base di predisposizioni soggettive motivazionali, attitudinali, di personalità e nel contesto culturale in cui vive.
Appare ora chiaro come la relazione fra persona e lavoro è tutt'altro che serena e felice, anzi. La letteratura evidenzia come negli ultimi decenni il mondo del lavoro sia profondamente cambiato, con una forte accelerata dal 2020 in poi, divenendo molto più conflittuale, competitivo, duro, impersonale, difficile da decodificare e interpretare.
Il risultato è che il malessere diviene normalità: molte persone vivono il lavoro come un male necessario, un dovere dal quale fuggire appena possibile, un'imposizione con restrizioni, anche alla libertà personale, anche oltre i confini contrattualistici, fino ad invadere la sfera personale in termini di tempo ed energie. Un vivere costantemente in modo malsano, disequilibrato, distorto, conflittuale.
Ed ecco che nelle organizzazioni si aggirano fra i tanti o pochi colleghi, altrettante maschere. Mobber e vittime incluse.